AUTORITARISMO IN AGGUATO. Coscienza di classe e contraddizioni sociali

Quando Costa pubblicò “Ai miei amici della Romagna”, nel luglio 1879, l’anarchismo italiano era già in profonda crisi a causa soprattutto della repressione governativa. Negli anni successivi, tre fattori si combinarono per aggravare la crisi e impedirne la soluzione: la paura della persecuzione, ancora più intimidatoria ora che gli anarchici erano stati ufficialmente bollati come malfattori; l’esilio di leader chiave, in particolare Cafiero e Malatesta, capaci di infondere energia e chiarire le questioni aperte; il dissenso e il caos causati dall’apostasia di Costa.

Come risultato di questa crisi prolungata, il movimento anarchico, tra il 1879 e il 1883, conobbe una significativa trasformazione e declino, le cui caratteristiche più salienti furono la demoralizzazione e la paralisi generale dell’attività, la disintegrazione organizzativa, il crescente isolamento dalle masse e il crescente settarismo ed estremismo in materia di ideologia e tattica.

Sia il tradimento di Costa e la sua svolta elettoralista, sia l’isolamento settario del movimento e l’illusione che la minoranza cosciente possa, con atti clamorosi, scuotere la coscienza assopita delle classi sfruttate mostrano caratteri autoritari che, se sono evidenti nell’elettoralismo, sono meno evidenti nelle tendenze antiorganizzatrici o illegaliste.

Già Luigi Fabbri ha messo in evidenza che i non organizzati, gli antiorganizzatori, sono organizzati senza saperlo e per questo si credono più autonomi degli altri. In realtà essi possono essere più facilmente preda del conferenziere eloquente che passa, del compagno più attivo, del gruppo più in intraprendente e del giornale meglio fatto, seguendone ovviamente le capriole teoriche e tattiche. Cioè l’organizzazione formale, purché sia cosciente e sostanziale, è utile per evitare l’accentramento di tutto il lavoro attorno ad un singolo o ad un gruppo, che diventa così l’arbitro del movimento.

L’origine di questo atteggiamento, dal punto di vista della storia delle idee, si può trovare fin dalla nascita della sezione italiana dell’Internazionale, segnata sia dal rifiuto di un approccio rigidamente classista sia dalla fiducia nella spontanea capacità rivoluzionaria dei ceti popolari. Del primo atteggiamento sono un segno le giustificazioni interclassiste che i delegati della federazione italiana diedero ai congressi dell’Internazionale antiautoritaria circa l’adesione riservata ai membri delle classi lavoratrici; questo ebbe come conseguenza che non furono sviluppati i suggerimenti di analisi di classe contenuti negli scritti di Michail Bakunin, poi raccolti in “Stato e anarchia”, e furono colti con ritardo i segni di sviluppo di una classe operaia, industriale ed agricola, impegnata nelle prime lotte per miglioramenti salariali e riduzioni di orario. Ancora nel 1884, nel “Programma e organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori” e in “Fra contadini”, Errico Malatesta proclamava la diffidenza verso lo sciopero e le lotte per miglioramenti immediati. La necessità della partecipazione attiva alle nascenti organizzazioni operaie veniva sostenuta per predicarvi i principi rivoluzionari in previsione di una lotta decisiva a breve scadenza. Bisognerà aspettare il ritorno dalle Americhe, alla fine del decennio, e l’esperienza del grande sciopero dei portuali di Londra per vedere emergere un atteggiamento nuovo nella riflessione di Malatesta. Allora il grande rivoluzionario, in polemica con l’atteggiamento antiorganizzatore e immobilista di molti militanti, si ritrovò a ripetere, quasi parola per parola, le critiche alla Federazione italiana dell’Internazionale messe per scritto da Andrea Costa dieci anni prima nella sua lettera agli internazionalisti romagnoli, ovviamente con uno sbocco diverso.

La fiducia nella spontaneità rivoluzionaria delle masse era stata una delle molle per l’azione del movimento internazionalista in Italia dopo il Congresso di Rimini (1872). Sulla spinta di questa convinzione erano state tentate le insurrezioni del 1874 ed era stata messa in piedi la Banda del Matese (1877), nonostante l’opinione contraria di Michail Bakunin e di tanti internazionalisti fuori d’Italia. Ora, di fronte alle persecuzioni del governo e alla mancata insurrezione delle masse, gli atti di violenza individuale o clandestina di gruppo sembravano ormai l’unica opzione disponibile, l’unica alternativa alla completa impotenza.

Debolezza organizzativa ed estremismo ideologico stavano diffondendosi insieme nelle fila del movimento anarchico. Nel 1881 Emilio Covelli iniziò la pubblicazione a Ginevra del periodico dal nome rivelatore, “I Malfattori”; sulle sue pagine Covelli formulò una teoria rivoluzionaria che esaltava gli spostati e i malfattori. Non si trattava dei rivoluzionari della classe media che si erano declassati a combattere per conto delle masse, si trattava dei veri emarginati della società: i fuorilegge, i diseredati, i ribelli di ogni sorta. Nella concezione di Covelli, mentre gli operai lottavano per la rivoluzione economica e la piccola borghesia per la rivoluzione politica, erano i malfattori che combattevano per quella da lui definita rivoluzione morale, e quindi costituivano l’élite rivoluzionaria. Carlo Cafiero, da parte sua, pubblicò un mese dopo, sul periodico “Le Révolté” di Ginevra, un articolo dal titolo “Action” che è considerato un manifesto dell’anarchismo catastrofista e illegale. Per Cafiero l’azione, in sé e per sé, svilupperebbe la forza del movimento anarchico, più o meno come un ginnasta rafforza i suoi muscoli usandoli. Né il movimento anarchico, prima di agire, dovrebbe aspettare fino a quando le masse avessero condiviso i suoi ideali. Solo una piccola minoranza avrebbe raggiunto una visione chiara della rivoluzione. Se, per partecipare alla lotta, gli anarchici avessero aspettato che la rivoluzione si presentasse nel modo che avevano concepito nel loro cuore, avrebbero aspettato per sempre. Cafiero e Covelli stavano articolando un approccio post-internazionale all’attività rivoluzionaria, in cui piccoli gruppi – ciascuno operante autonomamente come una cellula clandestina, ma uniti dal loro unico scopo di violenza contro l’ordine costituito – avrebbero intrapreso continue guerriglie e atti terroristici contro persone e proprietà.

Come si vede, si tratta di una concezione elitaria della rivoluzione, che esclude una partecipazione autonoma delle masse, un lavoro lento e costante di costruzione organizzativa e di maturazione ideale che nasca dall’interno delle classi sfruttate e dalle loro condizioni di vita e di lavoro.

Ma come è possibile passare dalla concezione ottimistica della spontanea coscienza rivoluzionaria dei ceti popolari ad una concezione elitaria come quella riportata sopra?

Credo che alla base di questa contraddizione ci sia una confusione tra quello che è il ruolo delle masse nella rivoluzione e l’effettiva coscienza di questo ruolo da parte di ogni singolo componente e pure nelle minoranze più attive. È una confusione che ho avuto modo di verificare personalmente nelle discussioni con compagne e compagni, che appunto si chiedono come sia possibile affidare un qualsivoglia ruolo rivoluzionario alla classe operaia quando tanti operai esprimono opinioni reazionarie o quanto meno di supina rassegnazione all’ordine esistente. Si tratta evidentemente di due problemi diversi: il primo riguarda la trasformazione rivoluzionaria della società in un domani che ci auguriamo che sia il più vicino possibile; il secondo riguarda le idee dominanti oggi fra le classi sfruttate.

La soluzione del primo problema è vincolata alla strategia che il movimento anarchico decide di adottare, in coerenza con i fini che intende raggiungere. Se rinunciamo al protagonismo delle classi sfruttate, se rinunciamo, a causa della loro sudditanza rispetto alle idee dominanti, al loro ruolo nella trasformazione dei processi di produzione e distribuzione, non rimane che la rivoluzione dall’alto, l’intervento di un organismo che, qualunque sia il nome che adotta, sarà di fatto un governo e interverrà in modo dispotico all’interno dei processi economici. La storia ha dimostrato che un esperimento di questo tipo non può che terminare con la restaurazione del capitalismo.

Il secondo problema si risolve “andando verso il popolo”, per usare una indicazione data da Errico Malatesta al suo ritorno dall’America del Sud nel 1889. Ciò significa, da una parte, studiare le condizioni materiali in cui vivono le classi sfruttate e i movimenti reali che si danno nello scontro con le classi privilegiate, cioè quella che con parole forbite è definita composizione di classe; dall’altra parte significa studiare le contraddizioni che minano l’attuale organizzazione sociale e il modo di sfruttarle per il suo superamento. È uno studio che si fa soprattutto con l’esperienza, andando appunto tra i ceti popolari a fare organizzazione ed agitazione e riflettendo sui risultati che si ottengono. Da questo punto di vista, la consapevolezza del livello di coscienza delle classi sfruttate aiuta a definire il punto di partenza dell’agitazione rivoluzionaria. Del resto, le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. Non dovremmo stupirci dunque che le masse siano ostaggio dell’ideologia, dobbiamo stupirci piuttosto che, nonostante questo dominio ideologico, ci siano così tanti attivisti che si oppongono all’attuale organizzazione sociale.

Una concezione non realistica del livello di coscienza delle classi sfruttate, una concezione ottimistica può portare a risultati sorprendentemente negativi. Se questa coscienza non si risveglia da sola, può essere risvegliata da noi, può essere risvegliata dall’azione della minoranza cosciente, dal movimento anarchico. Rimuovere il velo può non essere facile: ma una volta che l’ideale rivoluzionario sta rivelato davanti agli occhi del popolo, esso ha la facoltà di vederlo, di distinguerlo dalla ideologia dominante, di sapere che è la verità ed agire di conseguenza.

Così, se la coscienza rivoluzionaria del popolo non si rivela, non dobbiamo fare altro che stimolarla. Fatto ciò, non vi è più bisogno di nessun’altra argomentazione. Come dissero gli internazionalisti del Matese agli abitanti di Letino “Se vulite facite e si no ve futtite”. Se la coscienza rivoluzionaria non emerge, vuol dire che è stata soppressa dolosamente.

La teoria che le classi sfruttate sono aperte allo spirito rivoluzionario, solo che lo vogliano, può portare a forme di fanatismo, come il pensare che solo la più depravata malvagità può spingere i ceti popolari a rimanere indifferenti di fronte alle sollecitazioni del movimento rivoluzionario; o che solo coloro che hanno ragione di temere la verità possono cospirare per sopprimerla. È qui che trova origine la persecuzione delle tendenze minoritarie del movimento rivoluzionario: ad esempio la vittoria del fascismo è causata dai trotzkisti, dagli anarchici o dal gruppo nel momento inviso alla corrente maggioritaria.

La visione ottimistica della disponibilità delle masse all’azione rivoluzionaria non solo rischia di educare fanatici, cioè persone convinte che tutti coloro che non vedono la verità rivoluzionaria devono essere posseduti dal diavolo, cioè venduti alla borghesia, ma può anche condurre all’autoritarismo. E questo, semplicemente perché, se il popolo non è capace di comprendere l’idea rivoluzionaria e quindi di un’azione conseguente, c’è bisogno di un’autorità che lo stimoli, lo guidi, lo punisca delle sue debolezze se necessario. A questo tipo di ideologia si rifanno anche le concezioni che, in un modo o nell’altro, considerano la classe operaia integrata nel “sistema”, e quindi la lotta economica che essa sviluppa incapace di evolversi in prassi rivoluzionaria.

La scelta autoritaria è senza dubbio quella di Andrea Costa e del socialismo legalitario, ma sul versante opposto è anche alla base della scelta illegalista e antiorganizzatrice di Covelli e di Cafiero. L’azione autonoma delle classi sfruttate è una componente fondamentale dell’anarchismo. Quando si rinuncia a questo si cade inevitabilmente nell’autoritarismo, più o meno legalitario.

Tiziano Antonelli

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